sulla narrazione della crisi

La crisi non sembra suscitare una reazione politica adeguata. E’ vero che sono emerse forme radicali di lotta e di resistenza tra i lavoratori colpiti dalla crisi, grosso modo sono rimaste chiuse all’interno dei luoghi di lavoro, al più hanno assunto manifestazioni spettacolari, ma non vi sono rintracciabili piattaforme che tematizzino il livello della crisi capitalistica, perltro niente affatto risolta, malgrado le reiterate dichiarazioni dei vertici finanziari internazionali, non fosse altro perché gli apparati responsabili della crisi sembrano essere rimasti intatti, a meno di guerre intestine rimaste ignote ai più. In altre parole, le lotte di occupati e precari (ma entrambi ‘pregano’ per un posto di lavoro) non pare abbiano affrontato il senso intimo di questa delicatissima congiuntura. Spesso si è assistito alla spettacolarizzazione dell’antagonismo ovvero alla miseria dello scontro (uso la parola miseria alla maniera debordiana), laddove questo risulta privo di un pensiero strategico di opposizione e resistenza. Il caso della Innse ha aperto delle speranze circa il modo di condurre una lotta. Tuttavia occorre riflettere sul fatto che lì è stato sempre presente il vertice della fiom e, ciononostante, non è stata per nulla cancellata l’ambiguità di una modalità resistenziale rispondente a una logica produttivistica. Nella stragrande maggioranza dei casi, i lavoratori sono apparsi acefali, privi di una reale capacità di orientare le lotte.  Il punto è che non sembra interessante affrontare questa crisi con una logica produttivistica, per quanto radicale possa essere e per quanto consapevoli si possa essere del disegno capitalistico di smantellamento delle aree industriali a vantaggio di centri commerciali e zone residenziali.

Bisognerebbe introdurre la questione della critica del lavoro, soprattutto in questa congiuntura. E qui si pone già subito il problema di quale parola sia necessaria a dire questa crisi, quale narrazione possa esprimerla. questipiccoli ha cercato di affrontare la questione con l’ultimo numero dedicato a Amerika di Kafka. Rimando alla lettura del quaderno per rendersi conto di che cosa voglia intendere quando parlo di narrazione della crisi. Non credo che questa crisi, specialmente questa, dove elementi fortemente immateriali sono ormai immessi in un quadro di instabilità dei fattori costitutivi del capitale, possa ancora essere raccontata, cioè detta, parlata, espressa secondo quello che nel suddetto quaderno viene definito schema dickensiano, che Kafka decostruisce. Eppure sembra che questo sia tuttora lo schema cui si ricorre.

Penso che a smascherare i piani delinquenziali di lobby, cosche e centri di potere possa essere sufficiente un intelligence delle forze dell’ordine minimamente attrezzato a darne conto, posta l’esistenza di apparati dello stato sinceramente interessati al buon funzionamento dello stesso. Penso, per es., che, invece di blindare uno scrittore come Saviano, allo stato costerebbe meno finanziare una ‘scuola di scrittura’ capace di lanciare scrittori in grado di formare l’opinione pubblica in maniera assai più efficace dei giornalisti, probabilmente molto più efficaci nella lotta alla riduzione di poteri occulti dell’attività repressiva di magistrati e forze dell’ordine. Ma la narrazione che si pone come obiettivo la critica dello stato di cose presenti può solo uscire da questo schema irrigidito, di stampo eminentemente conservatore. c.p.

La scheda di “Una lettura di America” di Clio Pizzingrilli

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8 Risposte to “sulla narrazione della crisi”

  1. M B Says:

    fa pensare molto. effettivamente quello che scrivi descrive bene lo stato delle cose, solo che questa narrazione altra per ora mi sfugge.

  2. Massimo Baldi Says:

    Narrare la crisi… significa inesorabilmente ‘criticare’ la narrazione, segnarne non certo la fine, ma l’ultimo giorno, l’ultimo sguardo, la memoria ultima della catastrofe.

  3. giuseppe bonfini Says:

    Criticare un sistema significa inesorabilmente criticare il suo linguaggio, è questo il passo più arduo che la ‘classe’ non riesce a compiere, e questo accade perché le forme capitalistiche odierne sono tecnicamente molto complesse lo stesso funzionamento del capitalismo sfugge ai più, finanche agli stessi economisti, ma quello che mi preme sottolineare è che questa complessità satura non solo il mondo (mondo come il limite spazio fisico che il capitale ha sempre aggredito e ormai impadronito con la produzione industriale), ma satura anche l’immaginazione (immaginazione come illimitato spazio per immateriale produzione finanziaria).L’afasia della ‘classe’ è data dalla sua immaginazione tappata dalla sua menomata cognizione di quello che è lo stesso capitale. Come si può spiegare altrimenti questa totale mancanza di creatività? Come ridare all’immaginazione, anch’essa oramai espropriata, quel ruolo di rottura che è servita in ogni momento rivoluzionario?

  4. questipiccoli Says:

    Mi pare che l’intervento di G.B. sia affatto pertinente e opportuno. Giuseppe è un operaio della Manuli, una multinazionale (poi non più tale) della gomma, che ha licenziato brutalmente 370 operai l’indomani della chiusura della fabbrica per ferie, lo scorso 31 luglio. Giuseppe è venuto a trovarsi dentro una lotta acefala, manovrata da un mix di ottusità da curva sud, casa pound e rifondazione comunista, qualcosa di incomprensibile. Non è stato possibile introdurre, in questa situazione, elementi programmatici, riflessioni critiche sulla natura della congiuntura economica generale e dell’azienda in particolare. Il movimento lì si è sviuluppato del tutto spettacolarmente, si direbbe poplusticamente, e una volta di più si è potuto constatare come le sigle che si richiamano al comunismo sono di fatto impedimenti alla creatività rivoluzionaria dei singoli. c.p.

  5. giuseppe bonfini Says:

    La mia esperienza di lotta è stata molto particolare, ho compiuto una censura su me stesso, avendo inteso che la stessa lotta lo esigesse, ho presidiato silenziosamente, ‘lu pire’.

  6. questipiccoli Says:

    potresti spiegarti un po’ meglio, pire? mi pare che tu sia un po’ troppo criptico, lasciatici comprendere.

  7. questipiccoli Says:

    Si viene lentamente tratteggiando la caratteristica di fondo della presente congiuntura ovvero l’egemonia del capitalismo finanziario sulla società. E’ stato osservato che il capitalismo finanziario sta ormai rendendosi autonomo, nel senso che è possibile supporre un riequilibramento dell’assetto capitalistico globale anche senza lavoro, anche laddove la disoccupazione cresca spaventosamente. La Borsa assume la governance della vita dei tutti con la messa a valore dei bisogni primari (la casa che si trasforma istantaneamente in mutui da pagare), essa costituisce il mezzo di separazione fondamentale attraverso cui l’individuo si disconnette da ciò che materialmente – miserabilmente – lo circonda, nella misura in cui assolutizza i suoi desideri astratti ovvero irrealizzabili se valutati in base al qui-e-ora della sua esistenza.
    Sembra evidente che, nella incapacità di elaborare una teoria generale della crisi, questa venga piuttosto raccontata. Ma il punto è: raccontata come. Se si resta in un ambito di giornalismo critico si assume senza dubbio la cifra della comunicazione esistente e dunque non ci sarà espressione altra dal linguaggio della crisi – è necessaria una narrazione della crisi come prendendola alle spalle, senza che i suoi comunicatori sappiano nulla, sospettino nulla della presenza di narratori della crisi.

  8. stavoliani Says:

    Sembra che il governo indiano abbia ceduto una cospicua quota di dollari in cambio di oro. Dunque non si tratta più soltanto di temere l’esplosione di altre bolle finanziarie, che ormai, viene detto, sono consustanziali al capitalismo, quanto di prevedere un vistoso cedimento del dollaro, finora la divisa cat’exochèn. India e Cina lavorano ai fianchi gli USA, mirano al suo ventre molle.

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